La (difficile) conciliazione delle famiglie immigrate
Articoli dalla rete 05/04/2015In Italia le lavoratrici immigrate sono il 44,3% degli occupati immigrati e il 10,9% del totale delle donne occupate. Se la crisi economica ha prodotto un brusco calo del tasso di occupazione dei lavoratori immigrati (-10,3 punti percentuali tra il 2008 e il 2012), così non è stato per le lavoratrici immigrate, il cui tasso di occupazione tra il 2008 e il 2012 ha subito un più modesto calo di 1,9 punti percentuali, attestandosi al 50,8%, un valore di media superiore a quello delle italiane. L’88,6% delle occupate straniere è impiegato nel settore dei servizi, di cui il 46,9% nei servizi alle famiglie, lavori che hanno risentito in misura minore delle fluttuazioni dell’occupazione. I dati positivi sull’andamento occupazionale nascondono però un rovescio della medaglia: i fenomeni della sotto-occupazione e del sotto-inquadramento professionale incidono per queste lavoratrici maggiormente rispetto ad altri e si riflettono in forti disparità del livello retributivo.
La crescente partecipazione delle donne immigrate al mercato del lavoro italiano pone in primo piano l’emergere di nuove problematiche di conciliazione. L’elemento critico non è solo il tempo, ma anche gli spazi geografici in cui si trovano dislocati i membri di una stessa famiglia. Il ricongiungimento familiare diventa il dispositivo centrale di conciliazione. Di fatto, però, la normativa impone dei requisiti difficilmente raggiungibili in tempi brevi e spesso obbliga le madri ad affidare, più o meno temporaneamente, i figli ai parenti nel paese d’origine e a mantenere i legami di solidarietà familiare in uno spazio transnazionale, attraverso pratiche a distanza.
Riguardo alle politiche a sostegno delle famiglie, della maternità e della natalità si può osservare un sistema ineguale, frammentato e stratificato di accesso a prestazioni e servizi. A livello nazionale, la legge finanziaria del 2001 ha limitato l’accesso alle provvidenze economiche statali, come l’assegno di maternità, ai cittadini stranieri di paesi terzi purché residenti e in possesso di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti. Finalmente, nell’agosto 2013, si è esteso il riconoscimento dell’assegno per nuclei familiari numerosi anche a questa fascia di popolazione. Continuano a rimanerne esclusi tutti i cittadini non comunitari con permesso di soggiorno inferiore ai cinque anni e gli undocumented. A livello locale, sono eclatanti le discriminazioni prodotte da molti regolamenti comunali che, ad esempio, disciplinano l’accesso ai bonus bebè.
Tra i diversi casi, uno dei più discussi è stato quello del comune di Brescia che erogava la prestazione ai nuovi nati con almeno un genitore italiano e che ha modificato le disposizioni solo a seguito di sentenza giudiziaria. Altri comuni hanno introdotto requisiti di anzianità di residenza, come il comune di Volterra che richiede la residenza sul territorio nazionale da almeno dieci anni di uno dei genitori del nuovo nato o il comune di Verbania che eroga la prestazione ai cittadini italiani e comunitari che siano residenti in territorio comunale da almeno tre anni mentre i cittadini non comunitari da almeno cinque.
Anche sul fronte del sistema dei congedi, nonostante l’uguaglianza formale tra lavoratrici autoctone ed immigrate, le disuguaglianze nascono in base ai settori occupazionali, alle tipologie contrattuali e alle fragilità sociali. In particolare, le lavoratrici domestiche sono tra le meno tutelate dalle normative sui congedi e in questo settore sono ampiamente diffuse forme di lavoro “nero” e “grigio”. Per chi svolge lavoro dipendente, la scarsa conoscenza delle norme, il forte legame che esiste tra il possesso di un contratto di lavoro formale e il mantenimento del permesso di soggiorno insieme alla pressione esercitata dai datori di lavoro, inducono a non avvalersi dei congedi parentali. Ne troviamo conferma nei dati dell’Inps: nel 2012, i cittadini non comunitari che hanno beneficiato dell’indennità di maternità costituivano l’8,4% del totale dei beneficiari e coloro che si erano avvalsi deicongedi parentali rappresentavano il 5,2%. Inoltre l’accesso dei minori stranieri ai servizi per l’infanzia non è affatto scontato: negli ultimi anni, in diversi comuni italiani si è tentato di limitarne l’accesso introducendo requisiti discriminatori. I Comuni di Ciampino, Trieste e Talentino, tra il 2010 e il 2013, avevano introdotto quale criterio per ottenere maggior punteggio nelle graduatorie d’iscrizione per la scuola dell’infanzia e per gli asili nido pubblici, una determinata anzianità di residenza nel territorio comunale di almeno uno dei genitori. Ancora a Padova e Bologna nel 2010 si richiedeva il possesso di permesso di soggiorno da parte dei minori non comunitari.
Nel 2013, ho svolto una ricerca che ha coinvolto un gruppo di madri immigrate, di cui otto sposate e cinque madri sole, nel tentativo di esplorare le loro strategie di conciliazione in Italia. È emerso uno scarso impatto di molte misure di conciliazione, eccetto per gli effetti dell’uso dei servizi per l’infanzia seppure con notevoli differenze tra l’offerta della città medio-grande di Padova e dei comuni limitrofi.
Le madri che riescono a restare sul mercato del lavoro a tempo pieno o part-time sono costrette asoluzioni prevalentemente informali, che devono essere di complemento anche nel caso di disponibilità di servizi. Per le lavoratrici domestiche, l’assenza di tutele normative viene in parte colmata attraverso la negoziazione con le famiglie per cui prestano servizio. Le negoziazioni fondano la loro forza su un fragile legame di fiducia che s’instaura dopo lunghi periodi di servizio e che spesso s’infrange con il licenziamento a fronte di una nuova maternità.
Quando le madri sono inserite in una rete familiare in Italia, la cura dei figli viene distribuita tra i generi e le generazioni. I parenti si alternano nell’accudimento, in una continua ricerca di conciliare i tempi del lavoro di ognuno. «Ancora adesso per mia figlia chiedo aiuto a mio zio, a mio fratello, a mia mamma e al marito di mia mamma perché anche loro hanno orari di lavoro a turni», racconta Marta, nubile, colombiana, assistente familiare presso una cooperativa.
Tra le coppie coniugate, il ridimensionamento della presenza sul mercato del lavoro dei padri, dovuto agli effetti della crisi economica, ha prodotto una loro maggiore partecipazione nell’ambito del lavoro familiare, talvolta non priva di contraddizioni culturali esplicitamente riconosciute. Infatti, i padri spesso traspongono la loro volontà di supportare la famiglia dalla sfera professionale a quella familiare, anche quando questa contrasta con le rappresentazioni soggettive intorno al proprio ruolo familiare e con culture della coppia improntate da modelli diversi ma persistenti di patriarcato. Liliana, Ester, Juliet, Alina raccontano di mariti che si occupano di preparare il cibo, fare la spesa, spazzare, aiutare nei compiti e giocare con i bambini ma anche di mantenere i rapporti burocratici con le istituzioni, come la scuola, soprattutto laddove abbiano maggiore padronanza della lingua italiana.
Quando, invece, in Italia la rete familiare è assente o non è possibile farvi affidamento, le madri attivano relazioni di solidarietà con persone estranee alla famiglia per garantire l’accudimento dei figli: vicini di casa, mamme i cui figli frequentano la stessa scuola, connazionali con cui si convive.
Il periodo più problematico, soprattutto per le madri sole, è l’estate, con la chiusura delle scuole, i centri-estivi a pagamento sono economicamente proibitivi e quelli organizzati dalle parrocchie coprono solo poche settimane. Si cerca di far coincidere le ferie accumulate nel corso dell’anno con questo periodo oppure si affidano i figli ai parenti, in particolare i nonni, nel paese d’origine.
A fronte di un quadro di sostanziale esclusione delle madri immigrate dall’accesso alle politiche di conciliazione e perciò al complesso dei diritti di cittadinanza, ci pare che le politiche d’inclusione dovrebbero convergere su tre campi d’azione principali: la rimozione delle rigidità normative e burocratiche relative al ricongiungimento familiare, permettendo ricongiungimenti orientati al godimento reale dei diritti alla vita familiare; lo sviluppo di un sistema di welfare omogeneo a livello nazionale per quel che riguarda i livelli essenziali di accesso ai servizi e di sostegno del reddito e l’estensione anche al lavoro domestico delle normative previste per la tutela della maternità e per i congedi.
Note:
(1) Rapporto Annuale Istat, 2013
(2) La ricerca, svolta con interviste semi-strutturate, è stata condotta per la tesi di laurea magistrale “Madri immigrate. Strategie di conciliazione tra lavoro e famiglia” (relatori Fabio Perocco e Giuliana Chiaretti), è stata svolta nel territorio della provincia di Padova e ha coinvolto tredici madri lavoratrici, di diversa nazionalità (Romania, Moldavia, Bosnia-Erzegovina, Perù, Colombia, Marocco, Iran, Nigeria), inserite in nuclei familiari ricongiunti in Italia. I nomi delle intervistate inseriti nell’articolo sono di fantasia.
Articolo tratto da http://www.ingenere.it/articoli/la-difficile-conciliazione-delle-famiglie-immigrate
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